Appunti di viaggio: negli Stati Uniti prima del trionfo Maga

Addio, cara America. In Usa alla vigilia di Halloween, fine ottobre 2024, quando al posto del Grande cocomero, nel gran campo di zucche, stava per sorgere il faccione abbronzato di Donald Trump. Questo è il taccuino di un vagabondaggio tardivo

New York . Manhattan, intorno a Times Square
Manhattan, tutte le foto che vedete qui sono mie

Il misterioso arancione dei capelli di Trump col tempo  è gradualmente svanito in bianco giallastro, ma in campagna elettorale era proprio un vivo color zucca.  E, se non avessi letto che l’improbabile tinta, con le sue curiose varianti, dipendeva dal tempo di posa (quanto riuscivano a tenerlo seduto dal parrucchiere: ora evidentemente di tempo non ce n’è più …) avrei detto che un genio del marketing gli aveva consigliato il color pumpkin. Una tonalità di arancio – dice il Pantone, autorità del colore – che “genera calore e ottimismo, che stimola l’appetito e incoraggia la socializzazione”.

New York. Evento civico a Times Square
New York. Evento civico a Times Square

Prima del trauma dell’Election day, sulla linea del tramonto dell’ultima campagna elettorale, ero negli Stati Uniti a innamorarmi delle zucche. Quelle vere, però. Arancioni sì, ma anche nere, bianche, marron, verdi, striate, rotonde e costolute come un pomodoro gigante, a forma di siluro come grosse zucchine, fatte a pera o a fiaschetta per essere svuotate e diventare recipienti e borracce … lustre o ruvide, brignoccolose o verrucose come nasi di vecchie streghe, dorate e succulente oppure inquietanti e squamose come dorsi di drago o di alligatore.

La zucca ha in sé la forza della potenza magica. Puff e si trasforma in una carrozza, in una lanterna, nel teschio di Jack! Bello vederle sui gradini delle case, sui davanzali di cottage di legno dalle grandi finestre illuminate proprio come nei dipinti di Hopper.  Mi è sembrata un’ultima magia prima del tonfo nel capriccio selvaggio.

In America le case di legno costano poco e si fabbricano ancora. Le finestre sono a un metro da terra, inconsapevole biglietto d’ingresso per gli intrusi … Risposta cinica e svelta: no no, quelli sanno che gli sparano! Naturalmente l’osservazione vale anche per le rugginose scale antincendio che penzolano sui muri di mattoni, rossi o grigi, dei palazzi di New York: chiunque può rompere un vetro ed entrare.

In “Colazione da Tiffany” di Truman Capote – lui davvero improbabile, come romantico – Holly Golightly scende continuamente nell’appartamento di sotto usando la finestra.  Mai vista una grata di protezione ma va da sé che, da abitante di un piano basso a Roma, preferisco le sbarre che mi rendono infelice piuttosto che le pallottole promesse ai ladri.

A Washington con un cielo di Van Gogh
A Washington la mattina presto, con un cielo che prova a imitare quello di Van Gogh

Il guaio di un viaggio tardivo in America è l’immaginario traboccante: abbiamo già visto tutto in un film o l’abbiamo saputo leggendo un romanzo. Quando arrivi a toccare il vero, tutto sembra ridimensionarsi. Farsi inevitabilmente più piccolo, meno scintillante, più modesto. Per godere dell’esperienza, bisognerebbe fare piazza pulita, svuotare la soffitta nella nostra testa e osservare con gli occhi di un bambino.

Non è facile, anzi è proprio impossibile. A me il vero è sembrato in formato “ridotto”, come se cinema e tv avessero prodotto una dilatazione che si è sgonfiata. C’entrava già un effetto Trump? Non credo, con lui il mito non si è sgonfiato, si è deformato, è diventato circense.

                           ESTATE INDIANA LUNGO I FINGER LAKES

Comunque  è stato bellissimo viaggiare in autobus nell’estate indiana dello Stato di New York con un tripudio di chiome d’alberi – fronde gialle, oro e una gamma di rossi mai visti – e poi piegare tra i vigneti per strade di campagna lungo le rive del lago Seneca, stretto e lungo come un fiume d’acque quiete azzurre-grigie. I ghiacciai del paleozoico si sono lasciati dietro laghi che disegnano le dita di una mano, i Finger Lakes. Siamo poi scesi dal bus per entrare nelle gole brune del Watkins Glen Park ad ascoltare le cascate, l’acqua dei torrenti che rimbalza sulla roccia tra muschi e rami di acacie protesi.  L’impressione è quella di sentire che loro ci sono, sono ancora lì. Ma loro chi?

Il Watkins Glen Park nello stato di New York
Il Watkins Glen Park nello stato di New York

 

I nativi, naturalmente: gli indiani Seneca, quelli che hanno dato il nome ai territori, la più popolosa delle tribù irochesi. Non so quanti ne siano rimasti, si dice poche decine di migliaia. A rischio di sembrare svanita sono pronta a giurare che in spirito, tra terra e cielo e nel folto degli alberi, sono ancora sulla loro terra. Chi è stato in Sicilia sa che cosa voglio dire: i Normanni sono scomparsi, eppure mai lasciarono l’isola, sono sempre lì.

Il nostro autobus, con l’autista italo-americano anzi napoletano che canticchiava distrattamente “Santa Lucia luntano ‘a te…”, era intanto rientrato in autostrada. Correndo verso il Canada, come in un video gioco, abbiamo superato almeno due camion col pilota automatico. Nessuno che canticchia al volante.  È stato come entrare in una fantasia disturbante e vagamente psichedelica, in un azzardo che urtava contro il paesaggio. Perché la natura là intorno è ancora signora e padrona, forte “presente e viva”. Così il camion-robot è diventato una specie di salto nell’ ultra-mondo. Da vecchia girovaga per le strade d’Europa, Africa e Asia, sono arrivata in America con inspiegabile ritardo scoprendomi principiante goffa. Questa combinazione – robot nella natura selvaggia – è stata la vera sorpresa. L’ America è un connubio di iper-sviluppo e stato primordiale di natura. E questo la rende elettrizzante. Solo in Germania, dove si vede la foresta tenebrosa entrare in città e occuparne intere parti, avevo provato qualcosa di simile.

 MAID OF THE MIST, LA DAMIGELLA DELLA NEBBIA

Maid of the Mist il battello che si spinge sotto il muro d'acqua delle Cascate del Niagara
Maid of the Mist il battello che si spinge sotto il muro d’acqua delle Cascate del Niagara

Le cascate del Niagara (vade retro Marylin, magnifica adultera del film omonimo tra spruzzi d’acqua gelata) sono disposte ad anfiteatro e in autunno rigonfie di più di centomila metri cubi d’acqua al minuto, verdi azzurre e ribollenti di schiume candide. Generano continue rifrazioni, sparando nell’aria fumi di goccioline colorate e curve di arcobaleni che si incrociano. Avevo immaginato una ressa turistica che invece non c’era. Scoiattoli grigi correvano su praticelli gialli ruzzolando tra le foglie, assolutamente indifferenti agli umani: sono così abituati ad averli tra i piedi che, presi dalle loro faccende di rifornimento delle tane in vista dell’inverno, non ci consideravano degni di nota. Se andrete, non perdetevi Maid of the mist, la gita in battello fin sotto il muro d’acqua che scroscia assordante, gettati tra le braccia del fiume sotto la cascata con addosso un leggero poncho di plastica fuxia. Si vivono attimi in assenza di tempo: è un obbligo turistico sublime, da non mancare.

Cascate del Niagara

La notte le cascate sono illuminate e si vedono dal lungo fiume canadese, dove ci sono i casinò per giocarsi lo stipendio e dove gli alberghi sono quasi senza personale, vi mettono in mano una chiave magnetica e ciao, non vedrete più un’anima. Ero troppo stanca per andare a tentare la sorte e avventurarmi in quel lunapark per adulti tipo Las Vegas. Di notte, coperto di lustrini, fa la sua figura, mentre di giorno è cartapesta color cenere, come il Paese dei Balocchi al risveglio, la mattina dopo, quando gli scappati di casa sono disillusi. Con tanta acqua scrosciante bisogna evitare di bere quella dei rubinetti: è disgustosa, disinfettata con qualcosa che lascia un cattivo sapore persistente …

Nel gioco del piccolo e del grande, dell’enfasi cinematografica e del mondo in scala reale, mi ha sorpresa Philadelphia, la città dei quaccheri, con la sua campana della libertà ferita da una crepa e la Sala del Congresso dove i delegati dei primi tredici stati, nel 1776, votarono la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti: il mondo reale è umile, sobrio, commovente e il gruppo dirigente della rivoluzione americana fu piccolo e audace. Quel primo Congresso aveva 56 delegati in un’aula come quella dove va a riunirsi il consiglio comunale di una piccola città. Quello di Philadelphia ora ha solo diciassette consiglieri per un milione e mezzo di abitanti e tuttavia risiede in un edificio pretenzioso, stile Secondo Impero, di ben 700 stanze.

FARE GLI AMISH IN PENNSYLVANIA

Se vi fermate nei paesi in giro per la Pennsylvania vedrete i villaggi Amish e i loro piccoli mercati dove si vendono uova fresche – sono grandi ovicoltori – buone marmellate e succhi di frutta artigianali, discrete ceramiche, zucche mignon – si ancora loro! – essiccate e composte in corone tipo quelle fatte di cipolle e di agli … Gli Amish vestono i loro abiti simil secenteschi, resistono nei loro costumi di vita e nel loro antico isolamento (nelle fattorie ci sono i generatori per la luce elettrica perché non vogliono attaccarsi ai cavi dell’elettricità, cioè essere collegati con il resto del mondo). Resistono non solo perché sono ma perché fanno gli Amish, cioè commerciano la loro identità come un brand, un marchio di autenticità genuina. Le loro galline abitano pollai mobili, montati su carri che ogni due giorni vengono spostati per evitare accumuli di guano che con la sua acidità ucciderebbe l’erba. I bambini hanno guance rosse come piccole mele e cappelli neri, rotondi, a larga tesa; le donne portano gonne lunghe alla caviglia e camicie candide con i colletti bordati di pizzo.

In ogni piccola città o paese che incontriamo lungo la strada verso Washington, intorno alla chiesa protestante ci sono cimiteri senza recinzione, grosse pietre conficcate nella terra con il nome di un capostipite, di un patriarca, e sotto tutti gli altri: mogli, figli, nuore e nipoti con il solo nome di battesimo e le date di nascita e morte. Ma ci sono anche tombe individuali, fiori quasi mai ma l’erba è verde brillante, curatissima.  Spesso si vedono piccole bandiere piantate per terra accanto a una lapide e quelli sono i morti in guerra che noi non abbiamo più. In Europa, i massacri nella ex Jugoslavia e oggi in Ucraina non hanno coinvolto direttamente, sul terreno, eserciti di altri paesi. Da ottant’anni, guerre coloniali escluse, le nostre famiglie per fortuna non mandano i loro figli a combattere.

ARLINGTON, DOVE LA GUERRA NON E’ MAI FINITA

Washington, il cimitero di Arlington

Per capire che cosa è la guerra per gli americani bisogna arrivare a Washington e vedere, assolutamente vedere, il cimitero di Arlington. Colline di lapidi in un giardino di oltre quattrocentomila tombe, davanti alla capitale federale, di là dal fiume Potomac, sul terreno che fu del generale Lee. Ci sono gli eroi della guerra d’Indipendenza e della guerra di Secessione, fino alle vittime dell’attentato alle due Torri l’11 settembre 2001, passando per la prima e la seconda guerra mondiale, per la Corea, il Vietnam, l’Iraq …

Ogni anno arrivano circa settemila salme di veterani con richiesta di sepoltura. Arlington non è l’unico cimitero militare, ce ne sono altri 136 sparsi per il paese, è solo il più famoso. Quello dove sono sepolti i Kennedy e gli astronauti dell’allunaggio, la giudice della suprema corte Ruth Bader Ginzburg e lo scrittore Dashiell Hammett, il compositore Glen Miller e Robert Mc Namara. Il giorno che sono passata, tra le verdi colline, sulla lapide di Bob Kennedy (solo sulla sua) c’era un bocciolo di rosa e alcune monete per pagare il passaggio all’aldilà. Questa distesa sconfinata di tombe dice che qui la guerra non è un’eccezione, è una costante. E forse gli americani sono davvero stanchi, non solo per ragioni di bilancio.

La tomba di Robert Kennedy

Quando abbiamo raggiunto la città, una città verde, con strade larghissime, edifici candidi di stile neoclassico che alludono a templi e basiliche, era domenica. E le strade erano festosamente gremite per la maratona dei marine; famiglie e amici muniti di campanacci incitavano gli atleti lungo il percorso. E così eccoci, per tornare alla guerra, dentro il parco del Lincoln Memorial, pieno di monumenti ai caduti.  Anche ai civili caduti in guerre interne come Martin Luther King, il predicatore dei diritti civili assassinato a Memphis nel 1968, che esce letteralmente da un gigantesco blocco di pietra. Il dottor King guarda dall’alto dei suoi quasi dieci metri: il suo memorial è un lascito dell’era Obama, come il bellissimo museo della cultura afro-americana.

Washington, il monumento ai caduti della guerra di Corea
Washington, il monumento ai caduti della guerra di Corea

Tra tutti i monumenti ai caduti, quello per i morti nella guerra di Corea, vale la menzione: sono 19 soldati in acciaio in un triangolo verde, nell’atto della ricognizione su un terreno sconosciuto, in un paese ignoto molto lontano da casa loro, indossano elmetti e pesanti zaini, sono coperti da larghi mantelli, hanno facce in allerta. Nessuna retorica, sono spaesati, avanzano alla cieca senza sapere.

“Vi vogliamo bene, ma ora risolvete da soli le vostre grane”, mi dice il ragazzo con cui chiacchiero per ammazzare il tempo, facendo una lunga fila al chiosco per comprare qualcosa da mangiare. Voi significa noi, gente d’Europa.

NEW YORK VIA ROMA

Di Manhattan non dirò quello che sapete. Del laghetto del Central Park dove il giovane Holden gettava pane alle anatre o dei colori incredibili della sera quando tutto si accende, dei famosi e decaduti negozi sulla Fifth Avenue o dei tombini che effettivamente fumano, come quelli che facevano volare la gonna di seta di Marylin Monroe. Ho annotato soltanto piccole cose.

New York. Passeggiata al Central Park
New York. Passeggiata al Central Park

Tipo perché il Moma è, in fatto di arte moderna, qualcosa di simile alla Galleria Borghese. Perché è costruito come una vera collezione. In ogni grande museo ci sono opere bellissime, opere interessanti, ma anche opere così e così. Lì no, il Moma è una raccolta che non tradisce l’alto criterio selettivo: nulla può essere al di sotto dell’eccellenza. Vai al Moma e capisci perché New York si pensa capitale del mondo.

L’altra nota dallo spiegazzato taccuino americano riguarda Roma, la nostra povera caput mundi e il dover smettere di infamarla parlandone male sempre.  Ho trovato il cuore della Grande Mela altrettanto inquinato, più rumoroso e molto sporco, cumuli di spazzatura stazionavano nella via del mio albergo di fronte alla sede del New York Times disegnata da Renzo Piano. Umani ridotti a zombi dal consumo di fentanyl si aggiravano nelle strade intorno come usciti da un film di Romero.

Notificare alla stampa estera, farsene una ragione e smettere di attribuirsi l’esclusiva di tutti i disastri. Poi prendere in santa pace il battello per Ellis Island, l’isola degli sbarchi dei nostri nonni, sapendo che non si avrà nulla da raccontare tornati a casa. Tutti  hanno già visto e ognuno è tornato con la sua cartolina che giammai vorrebbe barattare.

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