Ah, ah, ah. La risata di Eduardo Scarpetta

Qui rido io. Intorno al film di Mario Martone sul grande commediografo napoletano Eduardo Scarpetta, padre naturale dei De Filippo

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Eduardo Scarpetta

Che bello tornare nella sala buia con la schermo grande!

Ho preso l’auto per andare in una multisala a Terracina a vedere Qui rido io, il film di Mario Martone su  Scarpetta, fresco di Mostra del cinema di Venezia. Guardare un film come questo sul piccolo schermo domestico è perdersene più di metà. In ogni scena c’è una tale dovizia di dettagli, composti come in un quadro teatrale, che senza una proiezione in grande è impossibile entrarci dentro,  con gli occhi e con l’immaginazione.

Un meraviglioso Toni Servillo è Eduardo Scarpetta, padre-padrone e capocomico di un’estesa famiglia-compagnia fatta di attori, attrici, mogli, amanti e concubine, figli e figliastri tutti insieme sulle tavole del  palcoscenico e nel pranzo della domenica. È lui il centro di questo ritratto di famiglia e di compagnia teatrale, in cui tutto è esplicito e implicito insieme: si sa ma si recita, a casa e in scena. E recitare, o ritualizzare momenti di vita quotidiana come se fossero uno spettacolo, è un piacere condiviso. Una specie di fantasia erotica collettiva.

Eccoci allora in un affollato andirivieni di personaggi che ruotano intorno al padre-zio-capocomico e alla sua consorte, che ha accettato amanti e figliolanza illegittima del marito, inclusi  i fratelli De Filippo, figli di una sua nipote,  in un gioco di concessioni risarcite. Donna Rosa De Filippo, infatti, accoglie i figli non suoi, ma come una regina tiene saldamente in mano il nome e l’eredità di Scarpetta, destinata solo a chi è nato dal suo letto. Sono straordinarie interpreti Maria Nazionale, che qui è la moglie di Scarpetta e l’attrice anziana della compagnia, e poi Cristiana D’Anna che è Luisa, la madre del grande trio del teatro napoletano: Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. La giovane favorita di Scarpetta, che non fece mai l’attrice e, nella vita, fu schiava d’amore e basta.

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Qui rido io, il film di Mario Martone

Ho cercato, mentre scorreva il film, l’angolo visuale scelto per raccontare la storia e ne ho trovati due. La famiglia ci arriva attraverso gli occhi di Eduardo De Filippo bambino. Occhi grandi, intensi e bruni, in un viso emaciato di ragazzino già adulto per ciò che sa della vita. Guardo Luisa De Filippo e penso a  Filumena Marturano. Soprattutto quando rivuole a casa il figlio piccolo. Peppino che è stato mandato a balia in campagna. Il padre vuole lascarcelo: sta bene dove sta, tutte le attrici mandano i figli a balia … E Luisa: non sono un’attrice, sono solo una mamma!

Poi c’è l’affresco d’epoca. Napoli della belle époque, capitale europea di leggendaria eleganza, città della musica e del teatro. La vediamo attraverso l’occhio del commediografo alla moda: Scarpetta appunto. Quello che mandò in pensione la maschera di Pulcinella e conquistò il pubblico con una nuova figura comica, Felice Sciosciammocca.

E Scarpetta si fece la famosa villa al Vomero, tirata su con i proventi di una sola commedia, N’a Santarella, e fece scrivere sulla facciata Qui rido io. Il film racconta  di quando si prese gioco di Gabriele D’Annunzio, il vate nazionale, con una parodia della Figlia di Iorio, e finì in tribunale per contraffazione. Grazie all’eccesso di zelo di alcuni intellettuali e artisti del tempo (Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Libero Bovio) schierati in difesa del vate. Però Scarpetta vinse la causa con una perizia difensiva firmata, nientedimeno, da Benedetto Croce.

Questa Napoli trabocca davanti al nostro sguardo in modo fastoso e a tratti al limite del caricaturale, proprio perché la vediamo attraverso Scarpetta, teatralizzata a modo suo, come se fosse lui a raccontarcela.

Il film di Mario Martone, sceneggiato con Ippolita Di Majo, è fatto di una tale ricchezza di particolari da lasciare quasi troppo sazi, come mangiando un sartù carico di sapori. Non è un pasto leggero né potrebbe esserlo, visto che è deformato dall’occhio teatrale di Scarpetta, filtrato dalla sua immaginazione famelica e barocca.

Come nella scena madre del pranzo della domenica, con  il padre-zio-capocomico che fa le parti e riempie i piatti secondo i meriti, distribuendo commenti e sottintesi. A chi riso e basta, a chi solo polpette, a chi una porzione completa di sartù.

Ps. Per una lettura della drammaturgia di Eduardo De Filippo attraverso Scarpetta e circa l’influenza internazionale del teatro napoletano al tempo della belle époque, leggete Fabio Ferzetti sull’Espresso. E Goffredo Fofi su Internazionale.

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