Rosetta Loy e l’ombra della guerra

Lo sguardo di una bambina e poi di una ragazza affamata di vita sul mondo inghiottito dalla catastrofe che ha spaccato il Novecento

immagine per Rosetta Loy
Rosetta Loy

Rosetta Loy era una donna timida e affabile. Una ragazza nata negli anni Trenta e andata incontro alla vita, all’amicizia, alla gioia di innamorarsi e correre in bici,  con il rumore sordo della guerra. Un’ombra scura che prima poi affiora, acquattata in forme diverse, dentro molti suoi libri.

L’avevo conosciuta nel 1975 quando venne in redazione, a Noi donne dov’ero una praticante di vent’anni, a sistemare l’archivio. Era una presenza lieve e discreta. Con La bicicletta, romanzo del suo esordio letterario a quarantatre anni, aveva appena vinto il premio Viareggio opera prima. Giuliana Dal Pozzo, la direttrice del settimanale, ogni tanto scherzava sulla famosa letterata che tenevamo nascosta in archivio.

Molto tempo dopo Rosetta Loy ha raccontato di essere piovuta tra noi in un momento di depressione cupa. Aveva appena finito di scrivere La porta dell’acqua e aveva perso un amore. Quel lavoro certosino,  in un gruppo accogliente e un po’ stravagante, aveva fatto parte della cura. Cominciò a guarire, partecipando alle nostre riunioni e scrivendo articoli.

Pubblicato da Einaudi nel 1976, saccheggiato dall’autrice di dettagli utili per libri successivi e infine riscritto in un gesto di riparazione amorevole, La porta dell’acqua non è il suo libro più bello e neppure il più importante. Però è una chiave d’accesso al mondo che ha ispirato parte rilevante della sua opera. Si racconta un abbandono infantile: una bambina di quattro anni si ammala di disperazione quando la tata tedesca – bionda e crudele come un personaggio dei fratelli Grimm – se ne va via, insensibile all’amore adorante della piccola, che precipita nella solitudine di una casa facoltosa, popolata di adulti distratti.

La porta dell’acqua è una matrice: la curvatura della lente che le servirà per guardare e raccontare seguendo quel violento senso di esclusione, quella sensualità primitiva e la ribellione profonda contro la pedagogia dell’indegnità e della colpa. La lente che userà vent’anni dopo per mettere a fuoco il significato subliminale della parola ebreo e scrivere un saggio-memoir, questo sì, davvero importante.

Copertina de "La parola ebreo" di Rosetta Loy, Einaudi

Pubblicato sempre da Einaudi nel 1997, La parola ebreo ha segnato con il suo inatteso successo la nostra tardiva consapevolezza della vergogna delle leggi razziali e precede di tre anni l’istituzione del Giorno della memoria.

Nelle prime pagine ritroviamo la stessa camera dei bambini con le seggioline azzurre, la bionda Annemarie con i suoi fonemi tedeschi e il disgusto per il lembo di carne tagliato al neonato dei vicini: loro sono ebrei, non battezzano, circoncidono. Nel mistero di quel sangue innocente si nasconde la storia della calunnia millenaria che ha reso possibile la segregazione ed è arrivata a coprire l’orrore.

Ai tempi de L’Unità andai a intervistare Rosetta Loy per una serie di dialoghi, non sullo scrivere, ma sul leggere. Sedute nella controra, nella sua stanza della casa al mare, a Sperlonga, disse di due indimenticabili lezioni. Quella appresa da Natalia Ginzburg e l’orizzonte che le aveva spalancato La strada di Swann di Marcel Proust. Da Ginzburg  aveva imparato a guardare il mondo dal basso, come sanno fare soltanto i bambini. Mentre leggendo Proust aveva capito che la memoria passa attraverso la percezione del quotidiano, delle persone, degli oggetti: si può raccontare la grande Storia immergendosi in una tazza di tè.

Il suo libro più fortunato, Le strade di polvere, è il romanzo storico con cui Rosetta Loy vinse il premio Campiello nel 1988. L’eco dei cannoni e la polvere sollevata dal transito delle truppe, dei fanti e dei cavalli, s’insinuano nella vita di una famiglia contadina del Monferrato, al tempo della prima guerra d’indipendenza nel 1848.

Copertina di "Nero è l'albero dei ricordi", EinaudiPersonalmente ho amato di più un altro romanzo storico, quello che ha nel titolo un verso di Sylvia Plath: Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria. E qui la guerra è quella che spacca il Novecento, così paurosamente vicina al lettore e così cruda da deformare la percezione delle cose.

La guerra è il gorgo nero che tutto risucchia sotto la superficie di uno specchio d’acqua calma, è il piano inclinato sul quale i gesti più semplici e istintivi scivolano dentro la tragedia. Quel libro ha dietro la Versilia, la strage di Sant’Anna e un’intera generazione che muore, la sua. Siamo morti tutti – ci sta dicendo l’autrice – anche i sopravvissuti: dopo siamo rinati, nonostante tutto e con una vitalità quasi selvaggia.

Quel romanzo è stato scritto nella casa di Cesare Garboli, al quale Rosetta Loy è stata a lungo legata. A Vado, in una specie di maniero tra le spiagge di Camaiore e le Apuane. Sono nata dall’altra parte del monte Sumbra e, qualche volta, in estate scendevo a trovarli. Nessuno meglio di lei ha descritto quella magione fascinosa. La si trova nel suo memoir più bello, La prima mano, uscito originariamente in francese e poi pubblicato in italiano, da Rizzoli, nel 2009.

Copertina del memoir "La prima mano", Rizzoli

Dunque ecco la casa di Vado, specchio del suo geniale proprietario. Con il labirinto di stanze e i mattoni di cotto traballanti, i vetri infranti, i letti ampi come barche e poi il frutteto di mele rosse, il giardino con i platani piegati su altalene rotte e fantasmi di cani e bambini che si rincorrono … Una casa così potente che quando il proprietario ha osato venderla – ha scritto lei – si è vendicata come in un romanzo gotico, gli si è rivoltata contro con una stagione di disgrazie.

Perse, ritrovate e poi perse di nuovo lungo la vita, molte volte. L’ultima occasione è stata una cena da un’amica a lei molto cara e che ora non c’è più. Era stato un piacere ascoltare Maria Giovanna Garroni, amata professoressa di matematica a La Sapienza di Roma, e Rosetta Loy. Sentirle ridere in giardino nel fresco della sera. Da giovani andavano insieme in spiaggia con le loro tribù bambinesche, i figli di Maria Giovanna ed Emilio Garroni , quelli di Rosetta e Giuseppe Loy. Sapevano tutto una dell’altra.

Quando è morta Rosetta stavo partendo per la Spagna; per ricordarla, ho portato con me La prima mano. In copertina c’è la foto meravigliosa scattata da un uomo innamorato, suo marito. Mentre volavo, l’ho vista come appare nelle ultime pagine: nuota libera sotto la grotta di Tiberio, a Sperlonga, tra miriadi di pesci. Immagina, forse sogna un’infinità di possibili vite.

Questo testo è stato pubblicato su Leggendaria n. 156 ottobre-novembre 2022

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