Se il cuore si comporta da lupo. Un romanzo di Patrizia Carrano

Una quercia che muore e il cuore che simula un infarto per dire: basta, torna te stessa e ricomincia a vivere

Lupo grigio europeo fotografato allo zoo di Praga
Lupo grigio europeo fotografato allo zoo di Praga

Nella vita può capitare l’annus horribilis. Un periodo in cui saltano gli equilibri costruiti nel tempo. Muoiono persone care, fallisce un matrimonio, i figli ormai grandi corrono lontani ad afferrare la vita lasciando un gran vuoto, un impegnativo progetto di lavoro va in malora. Misteriosamente tutto frana nello stesso tempo e, come nei malefici, ai grandi dolori si mescolano insulti e ammaccature di ogni genere: infiltrazioni d’acqua dal soffitto, tamponamento in auto con colpo di frusta, invasione di formiche in cucina, ladri in casa … Il ciclo devastante sembra inarrestabile e tu il polo magnetico che attira negatività.

In un anno di questa tinta, culminato con il suicidio di un fratello maggiore già gravemente ammalato, la protagonista  dell’ultimo romanzo di Patrizia Carrano vive lacerata da un dolore persistente, che l’assedia e la fa sentire «astiosa e sociopatica». Finché un giorno, tornata nel bosco dove ama passeggiare col cane, e dove di solito si rifugia  all’ombra di una quercia secolare, scopre che il vecchio albero – il suo ombrello materno – non c’è più, è stato abbattuto dalla forestale. Questo improvviso vuoto simbolico innesca un corto circuito che la porta sulla soglia della morte per mostrargliela e dirle: ora basta, torna te stessa e ricomincia a vivere.

Copertina del romanzo di Patrizia Carrano, "Il cuore infranto della quercia"

Ciò che accade a Carlotta, così si chiama la protagonista di questo libro – «Il cuore infranto della quercia», pubblicato da Aboca – sembra un infarto, un dolore acuto al petto e l’impossibilità di respirare, ma per fortuna non lo è. È solo una perfetta simulazione: tecnicamente si chiama sindrome di Takotsubo. Dopo i cinquant’anni succede a tante donne in momenti di particolare fragilità: il cuore improvvisamente si ferma come se si spezzasse, manda un avvertimento potente e poi, fortunatamente indenne, ricomincia a funzionare come prima, da «muscolo faticatore» qual è.

Nei pochi giorni del suo ricovero in terapia intensiva, Carlotta  ripercorre i quattro tempi della sua vita di bambina male amata, di donna innamorata della natura e degli animali, di compagna di un etologo che vive dall’altra del mondo e di madre single. Non racconterò la trama, che è abilmente costruita per trascinare la curiosità di chi legge ed è sostenuta da una prosa avvolgente e sontuosa, capace di trasfigurare il dolore senza mai caderci dentro. Voglio concentrarmi sul dettaglio più originale, perché Carlotta scopre che il suo cuore è e si comporta come un lupo.

Leggete questo passaggio:

«Il lupo è un carnivoro, anche se occasionalmente mangia frutta e bacche: il suo corpo, e quello degli animali che caccia, è materia sapiente, capace di indicare la via. Ogni corpo sa, ogni corpo racconta, ogni corpo istruisce e spiega. La prova più evidente di questa verità le è stata offerta dal suo muscolo cardiaco che, pur essendo sano, ha finto di essere ammalato per metterla in guardia. Proprio come un lupo, il suo stesso cuore le ha mostrato le zanne, spaventandola a morte con il preciso scopo di farla tornare alla vita».

Non avevo mai pensato al cuore come a un lupo che vive dentro di noi, come un fratello ancestrale, una figura francescanamente allegorica. In questo libro di lupi si parla molto e si racconta di come vivono nei boschi dell’Appenino,  la nostra spina dorsale. Carlotta è una donna che lavora con le parole – di mestiere fa la traduttrice –  ma è anche una appassionata naturalista: il periodo più felice della sua vita l’ha trascorso sui monti Sibillini, facendo l’assistente di un etologo che seguiva il ripopolamento.

Creatura malfamata per la mitologia cupa e feroce che l’accompagna, il lupo è in realtà una sentinella e manda segnali d’allarme quando un equilibrio naturale si rompe. Nel mondo  arcaico e selvaggio che anche noi portiamo dentro, anche se sempre meno sappiamo ascoltarlo, c’è la salvezza non il pericolo. In fondo a un tunnel di crudele e pericoloso smarrimento, è ascoltando il linguaggio del corpo che si può tornare sé stessi e in sintonia con la vita.

Patrizia Carrano ha una lunga carriera di narratrice (da Manganelli, dice lei, ha imparato a diffidare della parola scrittore/scrittrice) e questo credo sia il suo ventesimo romanzo; ha firmato la sceneggiatura di grandi serie televisive; per molti anni ha seguito e commentato in tv, su Rai 1, il Festival del cinema di Venezia. La sua prodigiosa e versatile energia creativa – adesso, tra l’altro, dipinge –  non ha mai smesso di stupirmi.

Fin da quando  lei scriveva la sua rubrica di cinema a “Noi donne” e io ero la ragazza di redazione, l’ultima arrivata: entrava con un berretto di lana colorata che nascondeva tutti i capelli biondi, infilava un foglio di carta in una vecchia Olivetti, puntava il timer da cucina che portava nella tasca del loden e partiva in velocità. Quando suonava il timer consegnava il pezzo. Ciao Pat, ti voglio bene, e viva il lupo!

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