Dieci vite in una

Perché tanto interesse intorno a Charlotte Bronte due secoli dopo

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Le tre sorelle Anne, Emily e Charlotte Brontë ritratte dal fratello Patrick Branwell

Il primo settembre 1843 una ragazza inglese vaga in solitudine per le strade di Bruxelles. Figlia di un pastore protestante, vive in un pensionato femminile come tirocinante non pagata; è uno spirito capace di spericolate avventure interiori e sa di avere  talento, ma è povera, miope, non bella, porta abiti antiquati, si sente insignificante e bizzarra. E’ precipitata nella depressione da quando il suo professore, monsieur Constantin Hegér, il primo uomo che le abbia dato credito al punto di farsi considerare l’anima gemella, le ha sottratto ogni attenzione. Constantin è il  marito della direttrice della scuola, e gli Hegér sono diventati formali e diffidenti verso quella eccentrica ex studentessa, tornata a Bruxelles come insegnante junior. Così, lei entra nella cattedrale dei santi Michel et Gudule e va decisa verso un confessionale: al prete sbalordito spiega in francese che il suo credo esclude “le bonheur du sacrament”, non di meno è determinata a confessarsi. Che cosa cerca, visto che proviene da una famiglia di ferventi anti-papisti e che le sue lettere alle amiche e alle sorelle oltre Manica sono piene di annotazioni sulla natura superstiziosa dei cattolici e sulla loro “sensuale indulgenza”?

L’autrice di “Jane Eyre” è ritratta così nell’incipit  del libro di Claire Harman, “Charlotte Bronte. A life”, da poco pubblicata da Viking,  ultima di una serie di biografie, giacché ci sono vite più romanzesche dei romanzi e ogni generazione ama potersele raccontare di nuovo sovvertendo l’ordine delle cose, illuminando momenti e dettagli diversi, centrando particolari sfuggiti. Biografie come nuovi allestimenti di testi teatrali, ritradotti e messi in scena secondo lo spirito del tempo e con un’altra drammaturgia,  anche se non sempre offrono  rivelazioni attinte a fonti e documenti inediti. Allora ecco le quaranta vite  del colonnello Thomas Edward Lawrence, alias Lawrence d’Arabia in meno di un secolo; le venti vite di Virginia Woolf, le dieci di Charlotte Bronte, senza considerare le tante ricostruzioni condivise con il misteriosissimo  gruppo delle sorelle, raffigurate dal fratello pittore nel ritratto – oggi  conservato alla National Portrait Gallery     dove Branwell dipinse in un primo tempo anche se stesso in mezzo a Charlotte, Emily e Anne Bronte, ma poi si cancellò ricoprendosi con una colonna. La mostra della National Gallery di Londra allestita in occasione delle celebrazioni del bicentenario di Charlotte, nata a Thorton il 21 aprile 1816,  include la ricostruzione al computer dell’ombra di Branwell, il talentuoso ragazzo cui  Daphne du Maurier dedicò il suo “The infernal world of Branwell Bronte”, pubblicato nel 1960. Del resto la biografia delle Bronte è stata passione letteraria per diverse scrittrici, tra le quali Elisabeth Gaskell, Margaret Oliphant e Muriel Spark…fino a Tracy Chevallier, che quest’anno cura la mostra della Bronte Society nel Museo di Haworth, “Charlotte great and small”,  e un’antologia di racconti ispirati al mondo di Jane Eyre in pubblicazione da Borough. 

La  creazione del mito si deve certamente a Elisabeth Gaskell, che aveva conosciuto Charlotte e le era stata amica e che nel 1857, a soli due anni dalla morte di lei, pubblicò la prima biografia ( “La vita di Charlotte Bronte”, da poco riproposta in italiano da Castelvecchi). Gaskell ricostruì in modo suggestivo, attraverso documenti e testimonianze di prima mano, innanzitutto lo scenario: uno Yorkshire della prima metà dell’Ottocento brulicante di sette protestanti, di spettri evocati da un immaginario popolare genuinamente gotico, di luddisti spaventati dalla meccanizzazione del lavoro nei lanifici, mentre secondo credenze diffuse il fragoroso incedere della rivoluzione industriale imponeva al popolo delle fate lo sfratto perpetuo.  Là in mezzo, il palcoscenico della nostra storia, ovvero la canonica di Haworth isolata sulla collina e al limite della brughiera sferzata dal vento, con il giardino confinante su tre lati con il cimitero, probabilmente responsabile dell’inquinamento dell’acqua e dunque della cattiva salute dei residenti. E poi i genitori. Un padre irlandese bellissimo e impetuoso, capace di innamorarsi alla maniera delle teste rosse, creatore di una leggendaria variante del suo oscuro patronimico Prunty o Branty, trasformato  da lui stesso – al tempo in cui   studiava a Cambridge per diventare pastore della Chiesa anglicana – nel più elegante Bronte, in onore dell’ammiraglio Nelson, nominato  da Ferdinando I di Borbone re di Napoli, al quale aveva salvato la vita e il trono, duca di Bronte. Accanto a lui, la madre Maria Branwell,  uno scricciolo di donna, figlia di un commerciante di  Penzance in Cornovaglia: vide naufragare il suo corredo di sposa con la nave  che trasportava il suo bagaglio, incagliata a largo del Devonshire e, divenuta signora Bronte, morì giovane di cancro lasciando i suoi figli piccoli e sperduti nella canonica di Haworth.

Un grappolo di incredibili ragazzini – cinque sorelle e un fratello – educati “con spietato ardore” a una spartana indifferenza verso i piaceri della vita, venne su tra quelle mura sotto gli occhi di una zia materna e  di un padre dal carattere impossibile: prendeva sempre i pasti da solo nel suo studio, per scaricare i nervi sparava fuori della porta di casa ed era così severo da gettare nel fuoco gli stivaletti colorati dei figli, come del resto aveva già fatto con un’ inappropriata veste di seta della moglie. Quei ragazzini riempivano le giornate leggendo senza freni i libri della biblioteca e i giornali che il padre riceveva in abbonamento, uscivano nella brughiera da soli inzuppandosi di pioggia, discutevano animatamente di politica e allestivano per gioco le rappresentazioni teatrali dei drammi e dei racconti che andavano scrivendo … E’ noto che, tra loro, l’anima più silenziosa e selvaggia fu Emily, che avrebbe poi pubblicato un unico romanzo-capolavoro, “Cime tempestose”.

Risulta da un minuto quadernetto di lei adolescente che, a quattordici anni, Charlotte avesse già scritto moltissimi racconti ordinati in volumi, una galleria di ritratti di contemporanei, una rivista per giovinetti in sei numeri, un dramma in versi, un libro e una miscellanea di poesie. Al tempo di quel catalogo, nel 1830, le prime due sorelle – Maria ed Elisabeth Bronte – erano già morte di tubercolosi, contratta nell’educandato per figlie di ecclesiastici di Cowan’s Bridge, la scuola-lager per orfane e ragazze povere descritta in “Jane Eyre”. Elisabeth Gaskel indagò i fatti e cercò di smorzare le polemiche scoppiate dopo la pubblicazione del romanzo,  ma non si capacitò che il reverendo Bronte avesse rispedito Charlotte e Emily nel lugubre e insano collegio dove due delle sue bambine si erano già ammalate a morte.

Un po’ cresciute e di salute incerta, le ragazze Bronte andarono alla scuola di Miss Wooler a Roe Head, non lontano da Leeds, dove Gaskel raccolse le testimonianze delle compagne, che descrissero con freschezza impressionistica una Charlotte forastica e infelice, furiosamente politicizzata – ammirava il Duca di Wellington, l’uomo che aveva sconfitto Napoleone a Waterloo – e di irregolare formazione: con “buchi” nell’ apprendimento delle materie scolastiche ma con letture e conoscenze stupefacenti. Alla fine della scuola, un accidentato percorso di istitutrice  avrebbe rivelato che vivere lontana dal mondo costruito nella canonica di Haworth le  sarebbe stato difficilissimo; perché fuori di lì era sopraffatta dalla timidezza, dal disagio e dal conflitto con le asfissianti convenzioni sociali del tempo. Ciò nonostante, le avventurose Charlotte e Emily, nel 1842, partirono per Bruxelles per perfezionare lo studio del francese. 

Ecco allora il fermo-immagine che apre l’ultima  biografia, quella di Claire Herman: nella vita di Charlotte, rimasta sola oltre Manica dopo il rientro a casa di Emily, quel periodo segna il mutamento profondo che farà di lei la scrittrice destinata a cambiare per sempre il paesaggio della letteratura inglese. In quel confessionale, la figlia del pastore protestante depone non soltanto il suo segreto – l’amore non corrisposto, costato due anni  di umiliazione, di intenso batticuore e vane speranze, per Constantin Hegér, un uomo sposato padre di tre figli –  ma intuisce che può trasformare in energia creativa la forza di ciò che preme dentro di lei, la rabbia e la frustrazione, senza più censurare nulla. Non ci saranno altre confessioni, e tantomeno una conversione al cattolicesimo, ma nello stesso anno Charlotte comincerà a scrivere “Il professore” – il primo romanzo, più volte respinto dagli editori e pubblicato solo dopo la sua morte. Quanto a monsieur Héger, diventerà la figura “mercuriale”  che ispira i personaggi di altri tre romanzi: Rochester in “Jane Eyre”, Luis Moore in “Shirley”, Paul Emanuel in “Villette”. L’editore Fazi,  che sta facendo un bel lavoro di nuove edizioni, propone in aprile “Il Professore”, nella traduzione di Maria Stella, e una delle biografie, “Charlotte Bronte. Una vita appassionata” di Lyndall Gordon, dopo aver ripubblicato nei mesi scorsi “Shirley” e “Villette”, nelle rispettive traduzioni di Fedora Dei e di Simone Caltabellota. 

La prima biografia aveva letto i tormenti di Bruxelles come l’ingenua devozione di una studentessa verso un professore carismatico. Elisabeth Gaskell lo aveva incontrato e aveva raccolto la sua testimonianza sulle sorelle Bronte. Del resto, attenta a evitare pettegolezzi, Gaskell scrisse ancora in piena età vittoriana, quando il reverendo padre e il vedovo di Charlotte, il curato Arthur Bell Nicholls, erano ancora in vita … Ma già cinquant’anni più tardi la pubblicazione sul Times di quattro delle lettere di Charlotte Bronte a Costantin Héger aveva scoperchiato l’intensità e la forza di quella passione. Nel 1848, tornata a Haworth, lei scrisse:“…quello che so – è che non posso – che non mi rassegnerò alla perdita totale dell’amicizia del mio maestro – subirei le più grandi pene del corpo piuttosto che avere il cuore costantemente lacerato da brucianti rimpianti. Se il mio maestro mi ritira del tutto la sua amicizia sarò completamente senza speranza – se me ne dà un poco – molto poco – sarò contenta – felice, avrò un motivo per vivere, per lavorare. Monsieur, i poveri non hanno bisogno di granché per tirare avanti – chiedono solo le briciole di pane che cadono dal tavolo dei ricchi…” 

Se di Charlotte abbiamo quattro lettere, di Costantin nessuna; si sa che la corrispondenza fu copiosa, ma quasi interamente unilaterale. Claire Harman non indulge più che tanto nel chiedersi se tra i due  ci fu  davvero un ingannevole flirt; propende per un crudele equivoco, correndo tra loro una vera differenza di sensibilità e di cultura:  lui francese e normalmente affettuoso con gli allievi, lei inglese, protestante e totalmente ignara della tenerezza paterna. Tuttavia, Harman coglie nel professore un gesto di gelida indifferenza: monsieur Héger usò le lettere di Charlotte come carta di recupero; e lì dove lei scriveva “ho febbre – ho perso il sonno, l’appetito…”, lui annotava  l’indirizzo di un calzolaio sul margine bianco …

 Dai tempi di Bruxelles alla fine corrono dodici anni terribili e fervidi. Dopo i rifiuti incassati da Charlotte per “Il professore”, nel 1847 – nascoste dietro gli pseudonimi maschili di Currer, Ellis e Acton Bell –   le sorelle Bronte pubblicarono con grande clamore i loro tre romanzi. I libri sono “Jane Eyre”, “Cime Tempestose” e “Agnes Grey”.  A partire dall’anno successivo, nella canonica di Haworth tornò a riaffacciarsi la morte. Branwell, cui le sorelle avevano consentito di crescere nella mollezza, se ne andò in una crisi di delirium tremens, dopo aver dissipato il suo talento in una breve e tormentata vita, sorretta dalle sbornie e dal laudano. Emily, già gravemente malata di turbecolosi, rifiutò ogni cura e si lasciò morire in tre mesi; poi toccò ad Anne, che Charlotte aveva inutilmente tentato di salvare, portandola a Scarborough nella speranza che l’aria di mare l’aiutasse a guarire i polmoni. 

Da sempre le visioni drogate di Lucy Snowe in “Villette”hanno indotto il sospetto che anche Charlotte Bronte avesse fatto uso d’ oppio – allora il laudano era comunemente usato come tranquillante –  per contenere sofferenza e depressione. Ora Claire Harman aggiunge altri dettagli: i giovani Bronte avevano certamente letto e subito il fascino  delle “Confessioni di un oppiomane” di Thomas de Quincey, nei diari di Charlotte e nelle storie del mondo immaginario di Angria – la realtà fantastica  che avevano creato e “abitato” da ragazzini – ci sono continui riferimenti a stati alterati della coscienza, e Branwell divenne dipendente dagli oppiacei già nel 1840… Ma resta il fatto che, a una domanda diretta di Elisabeth Gaskell, Charlotte rispose decisamente di non aver sperimentato l’oppio di persona.

 Intervistata nel 1853 nel silenzio della canonica di Haworth, linda e raccolta nel suo maniacale ordine, Charlotte Bronte aveva ormai compiuto la sua opera. L’anno successivo, dopo aver lungamente resistito al corteggiamento del reverendo Nicholls, avrebbe accettato di sposarlo. Se ne andrà a soli trentanove anni, incinta del suo primo figlio, come se proprio non potesse farcela a mettere al mondo una vita nuova, lei che aveva perso la madre troppo presto e che l’aveva precocemente rimpiazzata con le sorelle e il fratello piccolo: quei ragazzini geniali, che il mondo aveva guardato come freaks, erano stati il vero grande amore della sua vita.

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