Ci sono nomi che hanno un posto indelebile nel cuore dei ragazzi del secondo Novecento e che ora abitano in soffitta. Tutti sanno chi era Michail Gorbačëv, l’uomo della perestrojka e del tramonto dell’Urss, pochi ricordano Dubček, il regista della Primavera di Praga soffocata nell’agosto 1968 dall’invasione delle truppe del Patto di Varsavia. E ora che vediamo Volodymyr Zelensky in mezzo ai lupi, stretto nell’ angolo tra Putin e Trump, ha un senso riscoprire Dubček e ripensarne il destino.
Vent’anni dopo la Primavera di Praga Renzo Foa andò a intervistare il protagonista della fallita riforma del socialismo reale che usciva dall’oblio dopo l’espulsione dal partito comunista cecoslovacco e una ricollocazione da manovale in un azienda forestale dalle parti di Bratislava.
L’intervista fece il giro del mondo e fu ripresa ovunque: dal Washington Post al Quotidiano del Popolo a Pechino. L’incontro fu reso possibile dalle aperture gorbacioviane, ma non per questo – apprendiamo da un piccolo libro che rimette in circolazione le parole e la memoria di Dubček – realizzarlo fu facile. Anzi, fino all’ultimo rimase sospeso e condizionato dal rischio di un colpo di coda dei servizi cecoslovacchi.
Renzo Foa, scomparso quindici anni fa, era allora vicedirettore de L’Unità di cui avrebbe poi preso il timone, dirigendo il quotidiano nel biennio fervido e travagliato della fine del Pci (1990-1992), per approdare poi alla Fondazione Liberal. Da inviato di guerra in Vietnam e da testimone dell’agonia della dittatura di Franco in Spagna, scrive suggestivamente Stefano Folli nella sua prefazione a “L’Europa che non è stata. Intervista ad Alexander Dubček”, pubblicato da Succedeoggi Libri, Renzo Foa era stato un esploratore dei “buchi neri” dell’Occidente; con la stessa passione entrò nelle ferite della storia per analizzare e documentare la fine del comunismo.
Dubček e Foa qui parlano ancora secondo il galateo di un mondo scomparso, ma li sentiamo empatizzare profondamente. Entrambi sperano in una via d’uscita che salvi almeno l’umanesimo socialista: la perestrojka aveva allora resuscitato speranze evolutive anche in chi, come Dubček, aveva duramente sofferto. I comunisti italiani gli erano vicini e – a differenza di quanto era accaduto per l’Ungheria nel 1956 – avevano condannato la repressione della Primavera di Praga.
Sentiamo il cuore dell’intervistato e quello dell’intervistatore battere all’unisono: entrambi ritengono ancora possibile la grande riforma. Sappiamo che non ci fu e che dopo il 1989 l’Europa orientale andò nella direzione opposta. Del resto, argomenta Andrea Graziosi nella sua postfazione, il nazionalismo è sempre il modo più cheap per riempire i vuoti. E senza l’attrezzatura concettuale e una visione dell’economia adeguata a società altamente sviluppate, le aperture democratiche non potevano bastare. Mancò, dice Dubček, anche un’altra idea dell’Europa.
Renzo Foa, L’EUROPA CHE NON E’ STATA. Intervista a Alexander Dubček, Succedeoggi Libri, pp.120, 16 euro