La nuova guerra sul Nilo

La diga costruita in Etiopia che l'Egitto non vuole: storia di una contesa millenaria

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Le cascate del Nilo Azzurro

Un’oasi lussureggiante in mezzo al deserto, che segue una linea  d’acqua filiforme e bifida come la lingua di un serpente.  Il  resto è polvere, vento e roccia. Erodoto ha fissato l’immagine dell’Egitto come dono del Nilo. Senza il dio fiume ricco e pescoso, che ha reso fertile la terra e irrigato i campi, abbeverato e nutrito il bestiame,  reso possibili i viaggi di imbarcazioni  cariche di merci, che già  cinquemila anni fa scendevano e salivano nel cuore dell’Africa,  gli egizi non occuperebbero il posto che hanno nel nostro libro degli antenati e tutto sarebbe rimasto un cumulo di sabbia.

 Ecco perché qualunque ipotesi di riduzione del flusso delle acque del Nilo è percepita come  questione di vita o di morte, essere o non essere.  Su questo paradigma l’Egitto ha storicamente fondato  una dottrina sul proprio diritto all’uso autocratico delle acque e la forza apocalittica del  Nilo in grave secca è sempre transitata da un’epoca all’altra. La si ritrova perfino nei romanzi d’avventura contemporanei: in uno dei volumi della saga egizia di Wilbur Smith – Alle fonti del Nilo, in Italia best seller Longanesi – si narra dell’orribile siccità che ha ridotto la terra a un mattone crepato, ucciso gli animali e portato pestilenze. Taita, mago e scriba, ha il compito di risolvere  l’enigma della malattia che uccide il fiume, ridotto a pozzanghere di fango dove galleggiano pesci morti e una schiuma rossa … Un Nilo affatturato dell’antichità che mette insieme  i simboli delle famose piaghe bibliche con un richiamo ai  fanghi tossici e alle alghe rossastre prodotte  dall’inquinamento di oggi.

A metà  di questo secolo l’Egitto avrà 170 milioni d’abitanti, il 95% della popolazione vive lungo il fiume  che soffre per le acque reflue non trattate, parte del prezioso limo d’Egitto finisce sul fondo del  grande lago Nasser creato con la diga di Assuan, inaugurata nel 1970. E  questo ha aumentato l’uso dei fertilizzanti in agricoltura e ha accelerato la salinizzazione del delta. In cambio, la diga genera la metà dell’energia necessaria al paese, è  migliorata la navigabilità e sono più miti gli effetti di siccità e inondazioni.  Se diminuisce la portata del Nilo  l’Egitto avrà problemi, non è un incubo ricorrente è un fatto molto serio, ma questa volta non basta abbaiare contro gli altri, i paesi  africani a monte del fiume, ci vuole un accordo equo per un uso delle acque che sia per tutti ragionevole e vantaggioso.

A rompere equilibri secolari  è stata la costruzione  della gigantesca diga sul Nilo azzurro realizzata in Etiopia vicino al confine col Sudan dal gruppo italiano Salini-Impregilo. I lavori valgono quasi cinque miliardi di dollari, sono iniziati nel  2011 e sono sostenuti   da un enorme sforzo nazionale –  tasse, prelievi forzosi dai salari dei dipendenti pubblici, titoli di stato e aiuti dell’emigrazione etiopica; la centrale, finanziata dai cinesi, sarà la più potente dell’Africa. La diga è quasi finita, ora bisogna cominciare a riempire il  gigantesco invaso e mettere in funzione le turbine: in Etiopia  due terzi della popolazione è ancora al buio, l’energia  che c’è non può bastare a sostenere lo sviluppo di un paese tra i più poveri e popolosi dell’Africa.

Gli etiopi vorrebbero  riempire il lago in 3-5 anni, gli egiziani pretendono che lo si faccia in 7-12 per non ridurre troppo la portata del fiume. I sudanesi  mediano: dalla Gerd  – la Grande diga della rinascita etiopica – potrebbero avere l’energia che serve molto anche a loro, tuttavia sono anche gli inquilini del piano di sotto, dunque assai preoccupati per quello che capiterà in caso di siccità o di forti piene.  Pronubi del negoziato tra i contendenti  si sono fatti senza esito gli Stati Uniti, ci ha provato la Russia, l’Unione europea ha offerto una sponda  e c’è tutto un ronzare di turchi e di cinesi … Tutto infine è precipitato  sul tavolo dell’Unione Africana e  davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite quando l’Etiopia ha annunciato che in luglio, con l’inizio delle piogge, avrebbe cominciato a riempire il lago. Così le trattative sono ripartire e siamo qui con fiato sospeso perché  sta per scadere il tempo fissato per raggiungere un accordo .

Uno scivolone e si andrà alla tanto annunciata prima guerra per l’acqua del XXI secolo, altrimenti questo sarà  il primo grande accordo per  gestire parte del bacino del mitico fiume che attraversa l’Africa fino al  Mediterraneo , dopo aver  bagnato il Cairo e raggiunto la regione di Alessandria, la città più civile del mondo antico, quella  che aveva l’acqua corrente nelle case già in epoca pre-romana. Chiaro è che il  rubinetto strategico del  Nilo si trova sulle montagne dell’Etiopia perché il ramo principale del fiume, quello che arriva dal lago Vittoria, perde gran parte delle sua portata impantanandosi nelle paludi sudanesi dove il 60% del Nilo bianco evapora; così, dalla notte dei tempi  l’Egitto ha impedito qualunque sbarramento sull’alto corso del fiume.  

Le fonti del Nilo azzurro sono sul Tana, uno specchio d’acqua a forma di cuore che sulla carta sembra una lenticchia  mentre a sorvolarlo è un piccolo mare sulla gobba dell’Africa e ci vuole un po’ prima di vedere la linea di terra dell’altra sponda. Costellato di  ombrosi monasteri copti e chiese medievali affrescate con angeli abissini,  il lago Tana è stato un rifugio dei  falasha, la tribù ebraica dispersa  trasferita  in Israele con spettacolari ponti aerei tra il 1984 e il ’91. Da qui, il Nilo azzurro corre giù tumultuoso scavando canyon: è color fango e fornisce più dell’80% delle acque oltre al miracoloso limo d’Egitto eroso all’altopiano dalla violenza delle piogge e delle rapide. Guadagnata la pianura, il Nilo azzurro incontra  il ramo maggiore del fiume a Khartoum.  La piena che inonda e fertilizza la terra in estate dura circa cinquanta giorni. I templi di Abu Simbel furono costruiti in modo che l’acqua del Nilo arrivasse a lambire la terrazza di accesso, dove si poteva arrivare in barca. Gli egizi sapevano prevedere l’esito dei raccolti a seconda del livello della piena segnato dai nilometri. Nel piccolo della leggenda familiare, sono rimasti i racconti di mio padre che aveva lavorato a Roseires, in Sudan,  dove c’è la diga in calcestruzzo con due eleganti ali di terra costruita da Impregilo negli anni Sessanta: a luglio il cantiere restava completamente  sommerso e bisognava aspettare che le acque si ritirassero.               

La storia delle grandi dighe africane racconta in modo appassionante lo sforzo non sempre riuscito di rimodellare la geografia a vantaggio dello sviluppo. E, per farsi un’idea di che cosa è successo  lungo questo bacino fluviale,  se ne possono ripercorrere  tappe ed  eventi  leggendo  la ricostruzione  di Arturo Gallia nel suo libro Le acque del Nilo. Dinamiche geostoriche e politiche, uscito da Carocci.

Gli inglesi che ebbero il controllo del Nilo dopo lo scramble for Africa capirono subito che, senza regolarne il flusso con opere idrauliche, non c’era sopravvivenza per la popolazione in crescita. Furono gli ingegneri al servizio dell’amministrazione coloniale britannica a progettare già a fine Ottocento un canale per superare le paludi sudanesi e ridurre così  l’evaporazione del Nilo bianco e poi la grande diga di Assuan, realizzata in Egitto quasi un secolo dopo. Mentre il canale Jonglei , che avrebbe deviato parte del fiume e drenato acque dalle paludi Sudd – recuperando ogni anno miliardi di metri cubi d’acqua – non è mai stato realizzato:  conflitti devastanti  interni al Sudan, valutazioni negative dell’impatto sulla vita di popolazioni locali dedite all’ allevamento e – adesso –  protezione di uno dei luoghi umidi più estesi e importanti del pianeta. 

A suggerire già a fine Ottocento che bisognava pensare a una più equa suddivisione tra i paesi interessati delle preziose acque del fiume  fu  l’ingegner Harry Thomas Cory, consulente americano dell’amministrazione coloniale britannica. Ma i funzionari di sua maestà – osserva  Arturo Gallia – considerarono  questa teoria una bizzarria democratica del tutto inadeguata alla realtà. I  loro principali interessi erano infatti concentrati in Egitto, dove da cinquemila anni si dava per scontato un diritto naturale intangibile sul fiume. Come si vede, gli elementi c’erano già tutti. L’Etiopia, che era rimasta indipendente,  e il  suo diritto a usare parte delle acque Nilo azzurro non esistevano affatto. Anzi, tra la fine del  XIX e i primi del  XX secolo,  negli accordi tra la Gran Bretagna e l’Italia, che aveva cominciato a insediarsi in Eritrea, e poi nel  trattato sui confini col  Sudan firmato dagli  inglesi con l’imperatore d’Etiopia, il leggendario Menelik II, c’è l’ impegno a non realizzare opere idrauliche sul Nilo azzurro e sui suoi affluenti.

 Nel 1929 il ras Tafari Makonnen allora reggente, ma presto sarebbe diventato l’ultimo Negus Negesti con il nome di Hailé Selassié, si rivolse agli Stati Uniti – unica potenza occidentale non coinvolta nel processo coloniale – per costruire una diga nei pressi del lago Tana. Il progetto fu studiato tra il 1931 e il 1934 e interrotto in seguito all’occupazione militare italiana del 1935. Il Negus d’Etiopia che trama per deviare il Nilo azzurro è ricorrente nei racconti dei viaggiatori europei  e arabi in età moderna . Ci sono anche leggende, secondo le quali  il Negus aveva il potere di assetare o inondare l’Egitto con piene devastanti, ma si asteneva dal farlo per salvaguardare chiese e monaci cristiani; in cambio non pagava pedaggi per recarsi al Santo Sepolcro, a Gerusalemme, dove accedeva  liberamente . Lo si legge  nella  Storia della Chiesa  ortodossa  tawāedo d’Etiopia  di Alberto Elli, ingegnere e orientalista , pubblicata dalle Edizioni TS. Si trovano citati lì anche i resoconti di viaggio del belga Georges Lengherand, che fu al Cairo nel 1485 dove seppe che, in caso di siccità, il Negus permetteva al sultano d’Egitto di far rompere nell’alto corso del fiume piccole dighe che poi, passata l’emergenza, gli egiziani riparavano  a proprie spese. 

L’epoca coloniale si è lasciata dietro  due trattati sulle acque del Nilo che coinvolgono solo l’Egitto e il Sudan, l’Etiopia è rimasta fuori. Nel 1929, l’Egitto da poco indipendente si assicurò il diritto di veto su eventuali opere idrauliche e circa il 90% dell’acqua, lasciando il resto ai sudanesi ancora sotto il dominio coloniale britannico. Nel  ‘59 le maglie si allargarono perché Nasser  voleva realizzare la diga di Assuan: dunque più acqua al Sudan, un risarcimento per gli eventuali  danni generati dalla costruzione della nuova grande diga e il diritto per i sudanesi di costruirsene una propria, la  diga di Roseires sul Nilo azzurro. Addis Abeba  non ha mai riconosciuto quell’accordo. 

Quando il Negus era ormai morto, ucciso e sepolto sotto il pavimento dell’ufficio del colonnello Menghistu Haile Mariam e, in Egitto, Sadat affermava che il suo paese avrebbe affrontato anche una guerra pur di mantenere il controllo delle acque del Nilo, in Etiopia si preparava la più spaventosa carestia della storia. Dopo  quella tragedia, la  giunta militar-comunista al potere immaginò  un progetto faraonico che coinvolgeva  anche la cooperazione italiana: convogliare una parte dell’acqua del lago Tana nel bacino del fiume Beles, dove sarebbe poi  stata trasferita (o deportata) parte della popolazione. Il  progetto, dal quale i vari interlocutori internazionali  gradualmente si ritirarono, fallì e comunque il governo del  Cairo fece saltare  il finanziamento  delle opere idrauliche bloccando un prestito dell’African Development Bank.

 Il Nilo azzurro è  una specie di tabu e l’ Etiopia è riuscita a costruire la sua grande diga sul fiume – dicono in Egitto – grazie a una serie di fatti compiuti.  Ma un gigante come quello non si tira su in una notte come una casa abusiva. A renderlo  possibile sono stati nuovi equilibri internazionali, peccato che a chiudere il cerchio sia mancata la parte più importante: l’accordo sull’ acqua. Gli egiziani ne vogliono di più e chiedono il controllo del livello del nuovo  lago per farlo scaricare in caso di siccità, in caso contrario sarebbero anche disposti  a bombardare la diga. Il governo di Addis Abeba  non intende consegnare a un altro paese le chiavi delle sue risorse idriche e, scaduti i tempi supplementari  della trattativa, comincerà  a far riempire comunque l’invaso, altrimenti si dovrebbe poi attendere la prossima stagione delle piogge, cioè perdere un altro anno. Per aver chiuso il conflitto ventennale con l’Eritrea, il premier etiope Aby Ahmed Ali si è guadagnato il Nobel per la pace, dunque è un abile negoziatore, ma ora è a fine mandato, le elezioni sono state rinviate tra le polemiche a causa della pandemia da Covid-19,  mentre il paese  – in questi stessi cruciali giorni – è sconvolto da caos e violenze per il misterioso assassinio di una celebre star della canzone, Handalu Hundessa, attivista della causa dell’etnia Oromo.  Internet è stato oscurato e tutto sembra davvero  appeso a un filo.  

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