Musino mio

Quattro secoli di corrispondenza: il fascino indiscreto delle lettere d'amore

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Isabella d'Este

Addio lettere profumate, ciocche di capelli, calligrafie fluenti, buste francobolli inchiostri colorati e pennini, addio flussi di parole seducenti, appassionate, sincere e disperate o – al contrario –  convenzionali, patetiche e bugiarde, copiate dal Segretario Galante, il suggeritore stampato in fortunate edizioni di manuali  bestseller  già alla fine del Settecento. L’epistolario d’amore che con le lettere di Eloisa e Abelardo tocca livelli altissimi già nel corso del 1100, per svilupparsi e crescere lussureggiante fino al Novecento, ha sfiorato il millennio e si è inabissato. 

Ora che la Cnn fa prontuari per consentire ai genitori di seguire le rapide evoluzioni degli acronimi che  rimbalzano sui display degli smartphone dei figli –  dallo spasimo sentimentale LAFS, love at first sight, allo sbrigativo IWSN, I want sex now – le scritture che corrono tra innamorati somigliano pochissimo  a lettere d’amore. E calarsi tra i carteggi per lo più inediti, raccolti  da Viella in “Scrivere d’Amore. Lettere di uomini e donne tra Cinque e Novecento”, a cura di Manola Ida Venzo nella collana diretta con Marina Caffiero,  è come entrare in un’altra dimensione e ascoltare lontane conversazioni intime. Gli epistolari d’amore che riempiono gli archivi sono siti storici dei sentimenti, entrarci è come aprire un passaggio, attraversare un diaframma temporale e trovarsi in un luogo dove analoghe emozioni parlano lingue antiche e desuete o a noi più o meno prossime. 

Talvolta si incontrano lettere luminose, scintillanti, barocche, piene di inventiva come le deliziose liste di baci compilate nel 1963 dal grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan per Palma Bucarelli, l’amata direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna: “Bacio con tenerezza infinita: 1) il pelino tutto solo sopra la noce a lato del tuo ginocchio sinistro; 2) la radice dei tuoi capelli, alle tempie; 3) il mignolo dei tuoi piedi: dentro, tra dito e dito; 4) Castore sveglio; 5) Polluce pigro; 6) Jean Auguste Dominique, come un grande petalo di rosa; 7) Il duvet biondo sulla conca dei baci, subito sopra il predetto; 8) la trasparenza azzurra (come la Grotta) delle tue ascelle…”,  in divertita enumerazione fino a 33; e che comprende anche il cane, lo spazzolino da denti, la sedia per finire a “me stesso, perché tu mi hai baciato” e per continuare in una successiva missiva fino a un milione (di baci). Il carteggio che si trova qui, curato da Lorenzo Cantatore, proviene dal fondo lasciato all’Archivio centrale dello Stato da Palma Bucarelli, a lei Argan restituì le lettere in suo possesso perché potesse disporne. 

Talvolta la scrittura è invece tesa di nervosa ansia d’amore, come quella di Paolo Giordano Orsini,duca di Bracciano e futuro supposto assassino della moglie, nelle lettere destinate all’allora giovane sposa Isabella de’Medici, figlia di Cosimo I, nel volgare del 1558: “…Avendoli io scritte tante letere ne mai di nessuna haverne hauta risposta mi fa credere che vostra signoria se sia a tutto scordata di me per il che sto for di me che a una che io non ho altro bene al mondo di lei che in così pochi giorni si sia scordata di uno che sa quanto l’ama, per questo vita mia scrivemi spesso come io fo a te se non che io vi tenerò per la più disamara donna del mondo et me per il più disgratio…. “ I due sono passati alla storia come una coppia diabolica: rozzo e violento femminicida lui, raffinata e dissoluta lei, uccisa per punizione; eppure, come si vedrà, fu solo calunnia, leggenda nera smascherata solo pochi anni  fa, a partire dalla scoperta di questo carteggio, da Elisabetta Mori, allora responsabile dell’Archivio Storico Capitolino.   

Ma naturalmente c’è anche la corrispondenza seriale e, a guardar bene, il prontuario degli acronimi di oggi può diventare il Segretario Galante  del XXI secolo, frasi pronte per l’uso veloce.  Spesso sorvegliata (letta) da genitori e precettori, la corrispondenza di maniera mostra sceneggiate pre-matrimoniali tra fidanzati che a malapena si conoscono, costruite in crescendo secondo un preciso gioco delle parti. 

Come nel settecentesco carteggio tra i promessi sposi ventenni Francesco Caetani, primogenito del duca Michelangelo di cui ereditò titolo e patrimonio, e Teresa Corsini, nipote del cardinale Neri: naturalmente è lui a dare il là e comincia con “Eccellenza” per salire verso “Carissima sposa”, che – lettera dopo lettera – diventa prima “mia” e poi “carissima ed amabilissima”. Lei lo segue pedissequamente, ripetendo al maschile lo stesso frasario con identiche gradazioni d’intensità; di spontaneo c’è solo la preoccupazione della povera Teresa che il fidanzato resti deluso dal suo ritratto perché non è abbastanza bella: “Mi trovo in obbligo di difendere il Pittore con avvertirla preventivamente che se vi saranno difetti non sarà colpa del povero Artefice ma difetto dell’originale”. Erano tempi in cui i matrimoni si combinavano in giochi di alleanze, per generare eredi in associazioni di casate e patrimoni,  ricorda la curatrice Caterina Fiorani. L’amore – per non parlare del sesso – abitava altrove: Teresa Corsini morì nel 1778 sfiancata dalle gravidanze  (19 tra parti e aborti in 21 anni di matrimonio), mentre Francesco Caetani si risposò dopo  due mesi con l’amante , secondo le cronache donna di grande bellezza ma di bassa estrazione sociale,  dalla quale aveva già avuto un figlio naturale. 

Nell’adulterio, se non è codificata la corrispondenza, certamente lo è la relazione. Eroe del risorgimento e due volte sindaco di Roma nell’Italia post-unitaria, Luigi Pianciani ha lasciato un epistolario ricchissimo, dove si trovano anche molte lettere scambiate in gioventù con donne mature e sposate. Qui il gioco – cui entrambi i genitori del giovane signore tengono corda – prevede enfatiche e galanti esternazioni: “Amor mio, ho fatto un lungo sonno nel quale come puoi ben pensare la tua immagine mi è sempre stata presente – scrive il giovane Pianciani – Ora io ti vedevo a leggere la mia lettera ora la mia speranza mi ti presentava occupata a rispondermi, mi sembrava vederti venire ad incontrarmi al mio ritorno in Roma….La mia immaginazione deve esser quella che oggi mi appaghi benché i contenti procurati da lei fallaci siano e poco durevoli. Ben presto mi accorgo del vuoto che mi circonda ed è necessario che ricorra ai tuoi fazzoletti che ho meco, al tuo portafoglio per sollevare qualche istante”.  Mentre le signore di volta in volta coinvolte rispondono con furtive comunicazioni  per combinare un appuntamento in assenza del consorte e, anziché di stati d’animo, parlano di questioni pratiche, di figli, di malattie, senza mai denigrare il marito o mettere in discussione il matrimonio. Sono ruvide e concise, sembrano vivere l’adulterio senza patemi,  nulla a che fare con Anna Karenina e neppure con la Bovary. Le donne sposate scrivono banalità perché badano al sodo, l’etica del romanticismo non si è ancora affermata e l’adulterio discreto fa parte del matrimonio senza amore; d’altra parte – spiega la curatrice del carteggio del giovane Pianciani,  Manola Venzo – le signore non sanno ancora scrivere bene e un po’ se ne vergognano: a metà dell’Ottocento la dimestichezza con la scrittura di molte borghesi e aristocratiche era  ancora basica.

Va da sé che c’è adulterio e adulterio. E qui si trovano, a cura di Paola Carlucci, alcune delle lettere che testimoniano della relazione intercorsa tra Sidney Sonnino, ministro e presidente del consiglio del Regno d’Italia e sua cognata, la nobildonna piemontese Natalia Morozzo della Rocca, moglie del conte Manfredi Francesetti di Malgrà e figlia di uno dei militari più in vista dell’esercito sabaudo, ministro della guerra nel 1849 e amico intimo del re Vittorio Emanuele II. 

Sonnino e la contessa si conobbero al matrimonio dei rispettivi fratelli, poco più che ventenni, si innamorarono negli anni successivi e restarono legati fino al 1907, anno della morte di lei, che  cercò invano di separarsi legalmente dal conte Francesetti.  Finì che si acconciarono a una vita coniugale di facciata, anche se il legame con Sonnino era noto e profondo al punto che lui mantenne un vero rapporto d’affetto con i figli di Natalia. Le loro lettere d’amore  sono state conservate dalle figlie di lei e successivamente donate dagli eredi  all’Archivio di Stato di Torino. La corrispondenza raccolta qui rende l’idea  di un matrimonio parallelo. Il figlio di Natalia, Ugo, console italiano in Corea, muore di tifo a Seul nell’ottobre del 1902 e la madre decide di imbarcarsi a Napoli su una nave tedesca, con la figlia Hilda e con la segretaria de “Il Giornale d’Italia” Alice Parodi, per riportare a casa la salma. Sidney è contrario all’impresa che considera pericolosa e a malincuore si presta a organizzare il viaggio. Date le circostanze, le lettere esprimono una grande angoscia per la lunga separazione che li attende:” Dearest, tutto il giorno, a ogni ora, a ogni minuto, qualunque cosa facessi, pensavo o sentivo che intanto vi allontanavate sempre più da me, sempre più, sempre più, senza un momento di posa. … Ma non voglio rattristarti, Natha cara, col parlarti del mio stato di animo. Siamo giunti qui stamane da Napoli, tutti in discreta condizione. Ho trovato a casa una posta terrorizzante, dopo quattro giorni di assenza. La smaltirò a poco a poco. I giornali Ministeriali sono feroci contro di me pel discorso di Napoli”, scrive Sonnino allora capo dell’opposizione liberal-conservatrice. Mentre Natalia, disperata per la morte del figlio, risponde a “ Sidney mio amato…. penso che ogni ora che passa mi avvicina a Lui e mi allontana da te – tristissima vicinanza, triste lontananza – dolore, dolore, dolore”. Non sono semplicemente le lettere di due amanti, dove  dopo più di vent’anni di frequentazione lui scrive “ti aspetto con infinito desiderio” e, pur essendo un austero gentiluomo più che cinquantenne, spedisce fiori secchi e ritagli di opere d’arte; è la corrispondenza di due persone che si amano profondamente e dove transitano liberamente famiglia, figli, la comune passione per Dante, riferimenti alla politica corrente, dettagliate descrizioni delle tappe di viaggio, insomma una vita condivisa.  

“A lungo sottovalutate e oggi ritenute molto utili per illuminare contesti biografici o di storia sociale,  lettere, memorie, diari, nascono dall’emotività, sono messe in scena delle parti ‘calde’, sono un modo di  costruire una propria immagine agli occhi dell’altro  e,  quando le scritture private  appartengono a personalità  consapevoli che un giorno saranno di dominio pubblico,  a consegnarla ai posteri”, dice Manola Venzo, archivista e docente alla Scuola dell’Archivio di Stato di Roma. “ Che siano scritte da persone comuni o da personaggi storici, da popolani o aristocratici, nel Cinquecento o nel Novecento, le lettere hanno in comune stilemi precisi, un canone che si tramanda dai tempi dei trobadores e che il romanticismo esalta e fissa in regole precise: la strada dell’amore è irta di ostacoli, si nutre nella distanza, l’altro viene idealizzato e la trasfigurazione rende il sentimento  che suscita meno banale, lo rende unico”.  Gli ultimi cinque secoli ci hanno dunque consegnato un codice, una struttura della comunicazione tra innamorati fatta di strategia amatoria, retorica epistolare, teatro dei sentimenti e altro ancora: un genere che attraversa i secoli e gli scambi tra personalità molto diverse. Ma se di teatro più o meno consapevole si tratta, in ogni carteggio si cela una rappresentazione diversa. Proviamo a illuminarne meglio qualcuno.

Pratagonisti  nella storia dell’arte del XX secolo, Giulio Carlo Argan e Palma Bucarelli furono compagni per tutta la vita. Si conoscevano fino dagli anni Trenta, avevano studiato insieme alla scuola di specializzazione universitaria in storia dell’arte e si erano poi trovati a condividere accese battaglie  culturali  – basta ricordare quella in difesa dell’astrattismo e il comune interesse per la pittura di JeanFautrier.  La militanza intellettuale li avevano opposti a correnti avversarie, segnatamente all’intellighenzia comunista, e li aveva resi una coppia simbolo, circondata  di maldicenze e rappresentata come arrogante macchina di potere.

La loro relazione d’amore nasce in anni maturi, quando sono entrambi cinquantenni, quasi un recupero del non- vissuto da ragazzi: “ Ho il rimorso di tutto il tempo in cui ti ho amata senza saperlo (deve essere così – scrive lui –  perché debbo fare uno sforzo enorme per ricordare un tempo in cui non ti amavo; e mi pare, comunque, che quel tempo non appartenga alla mia vita, ma a quella di un altro e, quel che è peggio, di un imbecille)”. Le 23  lettere raccolte  in questo volume appartengono al periodo 1960-63,  anno del matrimonio di Palma con il giornalista Paolo Monelli, cui era legata dal 1936. Ufficialmente single fino ad allora (Monelli era sposato con un’altra),  Bucarelli era donna determinata, bellissima e ambiziosa, certamente trasgressiva per la scena culturale di quegli anni. E Argan era sposato dal 1939 con Anna Maria Mazzucchelli.  Così, entrambi si davano a un grande amore, fatto – come osserva Lorenzo Cantatore – di uno stesso modo di sentire la vita e la morte, di una stessa capacità di essere insieme felici e disperati, senza mettere in discussione tutto il resto delle loro vite.  

Non fu semplice trovare un equilibrio. In una  cupa lettera datata 1960,  dalla quale si intuisce che è stato toccato un limite oltre il quale è impossibile andare, Argan scrive: “Dovrò difenderti da me, da questo mio amore disperato come la vita e profondo come la morte: lo farò. La morte, anche a questo ho pensato: come all’unico, ultimo modo di identificarmi con te, di essere per un istante, l’istante di coscienza al confine del nulla, te. Perché la morte è l’esito della vita e tu per me sei proprio questo, l’esito della vita…. Non è l’avvenire che dobbiamo decidere, ingenui che siamo: è il passato che decide di noi, e non possiamo farci niente. Felicità e disperazione di pensare questo. So di avere un posto, un grosso posto, nel tuo passato. Se io fossi un altro degli uomini che ti amano, di nessun altro sarei geloso se non di me”.

E’ attraversando questo tunnel angoscioso che si trova subito una chiave importante: lui si identifica con lei, e ne parla come di una parte di sé che c’è sempre stata, doveva solo essere riconosciuta.  E questa rappresentazione di loro due come combattenti, e come parti di una stessa cosa, probabilmente rese la coppia indistruttibile  e al di là di tutto. Quasi un unico “personaggio” , come si legge in una lettera del gennaio 1961, dove Argan cerca di spiegare a Bucarelli perché le è così difficile stare al mondo: “Vedi, Palma,…tu soffri perché, in fondo, rifiuti di riconoscere che il problema ha un solo dato essenziale, e questo sei tu, la tua persona. Tu non hai avuto quello che si chiama una vita felice perché hai voluto avere e hai avuto una vita importante: le due cose non possono andare d’accordo, lo sai. Bella, intelligente, ammirata, adorata (detestata solo dagli idioti e dai vili), hai attraversato il mondo, coi tuoi occhi belli fissi a un punto indefinito, una spanna più in su della testa della gente. Hai voluto camminare col mento in su…e a camminare col mento in su, Palma, si respira un’aria più pura, ma si urta nei cantoni…. Com’è accaduto a me, del resto…” E ancora: “Poiché ci amiamo e poiché il ‘personaggio’ che tu ed io siamo pone un limite alle possibilità reali del nostro legame, noi vorremmo poterci togliere di dosso, come fosse un travestimento, il nostro personaggio. In realtà, noi non siamo altro che il nostro personaggio. Riflettici, Palma. Nulla di più umano, di più pietosamente umano…”

Per Bucarelli sono anni difficili. Stremata dal lavoro meticoloso condotto al fianco di Jean Fautrier, isolata e attaccata nella sua attività alla direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, sofferente per problemi di salute e incessanti emicranie. Le sue lettere provengono dalla Svizzera, dove è ricoverata in clinica, da Cortina o da Capri, Argan cerca di consolarla e di tenerla allegra, lusingandola o prendendola amabilmente in giro: “Anche le rose hanno (scusa il paragone volgare, non ne trovo un altro) i loro pidocchi; è stato ed è per me motivo d’orgoglio infinito essere il pidocchio prediletto, il più vicino al cuore della mia rosa”. E Palma da Cortina nel 1961: “Carlo, caro, caro, caro, caro, caro… mi vien voglia di scrivere tutta la lettera così, due, sei, otto pagine di ‘caro’, e nient’altro. Ma devo dirti che la tua lettera euforico-liricomitologicoanacreaontica mi ha fatto ridere come non mi capitava da un pezzo, e me la rileggo ogni tanto, da ieri mattina, come una medicina esilante (sto così male che salto persino le sillabe, mi cadono dalla penna, volevo dire esilarante). Ma sono scherzi pericolosi, Carlo: io non posso amarti più di così, e tu mi costringi a constatare che oltre quello che credevo un massimo, c’è sempre dell’altro… Ho riso, sei riuscito a farmi ridere, e avrei invece tanta voglia di piangere”.

Sfogliando l’epistolario cinquecentesco di Isabella de’Medici e Paolo Giordano Orsini, ci troviamo su una scena completamente diversa. Qui la narrazione che gli sposi fanno a se stessi e ai posteri stride violentemente  con il paradigma storiografico che dal 1576, anno della morte di lei nella villa medicea di Cerreto Guidi, arriva ai nostri giorni. Piena di amanti e avida di piaceri, la bellissima e colta figlia di Cosimo I sarebbe stata strangolata in un impeto di gelosia dal marito Paolo Giordano Orsini, duca di Bracciano,  un tipaccio interessato solo alle armi e alla guerra. 

Quando trova le cinquecento lettere del carteggio, Elisabetta Mori non crede ai suoi occhi, perché ha tra le mani un diluvio di parole d’amore. Paolo e Isabella si scrissero con continuità per vent’anni, in media una volta alla settimana, durante i frequenti periodi di lontananza: lei rimase lungamente a Firenze, era la donna più importante di casa Medici e aveva molti compiti pubblici. Paolo, cui era stata promessa dodicenne,lascia fluire liberamente  tutti i suoi stati d’animo in un corsivo in cui passa  dal lei al voi al tu, dal chiamarla vostra signoria a “musino mio caro”. Quando ancora il matrimonio non era stato consumato, ben sapendo che le lettere sarebbero state lette,osa baciarle la bocca e le mani e dichiararsi “di vostra signoria illustrissima servitor et affettionatissimo consorte che non spera altro il dì, né la notte, che vederla et goderla”. 

Dotata di grande acume politico e gelosissima del marito, Isabella non è da meno: “…se viva mi volete, scrivetemi qualche volta. Vorrei mi facessi gratia farmi far un vostro ritratto in uno anello che stessi come quello voi avevi di quella dama che lo desidero infinitamente et di gratia non velo scordate et così della cortina et perché credo che di già vi sarò venuta a noia con questa mia longa lettera farò fine, solo mi resta il ricordarvi che vi adoro et desidero tanto di vedervi che non credo abbia mai da venir tal tempo “.

Certo, le passioni possono virare al nero. Ma come è stato possibile che Paolo Orsini l’abbia ammazzata? L’assassinio di Isabella era un fatto storicamente acquisito e traslato nella tragedia di John Webster “The White Devil”, andata in scena a Londra nel 1611 e,  ne “Les Médicis”,   Alexandre Dumas aveva poi raccontato la storia d’amore incestuosa di Cosimo I con la figlia compiacente… Non convinta, Elisabetta Mori ha ricostruito tutti i passaggi, trovato le prove e scoperto che il 16 luglio del 1576 Isabella morì stroncata da una grave malattia renale. Alla luce della corrispondenza e di molti altri documenti, la versione  dell’uxoricidio non sta più in piedi e la vera questione è come fa una calunnia a diffondersi e a resistere per cinque secoli. 

Fu che al tempo  la diplomazia medicea  tenne segreta la causa della morte di Isabella, fu che la notizia deflagrò nelle corti europee, dove la terribile catena di morti nella famiglia di Cosimo I e le maldicenze diffuse dai fuoriusciti fiorentini, preferibilmente a sfondo sessuale, si diffusero generando le fosche e appassionanti storie  che i nemici dei Medici e del papato trasferivano dei rapporti diplomatici… un misfatto immaginario diventato vox populi e verità di comodo:  se fate un giro in rete è ancora lì. 

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